
La relazione illustrerà come un quadro motivazionale guidi i processi di autoregolazione che stanno alla base dell’uso dell’intelligenza.

Tra i fattori che influenzano il comportamento intelligente motivato è importante ricordare gli obiettivi che il soggetto si pone (Dweck e Leggett, 1998; Dweck, 1999). Essi dirigono il comportamento verso il raggiungimento di un determinato scopo. Alcuni studenti evitano di scegliere compiti impegnativi in cui c’è il rischio di fallire mentre altri, proprio attraverso simili attività, si mettono alla prova e sviluppano la propria competenza. Tali studenti, orientati verso obiettivi di padronanza, sono più attenti a ricercare strategie adatte al compito, si impegnano di più e con maggiore perseveranza.
L’insuccesso non viene vissuto come una dimostrazione di inadeguatezza ma come una fase da superare attraverso lo sforzo e l’impegno. Invece, gli studenti che possiedono obiettivi di prestazione mirano alla dimostrazione della propria competenza e cercano di nascondere i propri limiti. Si preoccupano di scegliere compiti molto facili, in cui sia più semplice ottenere un successo, o molto difficili, in modo da avere una buona scusa per motivare l’esito negativo. È stato dimostrato che gli obiettivi del soggetto sono influenzati largamente dalla credenza sottostante (Dweck, 1986; Dweck e Leggett, 1998).
Le teorie implicite sono le idee che il soggetto ha riguardo alla sua intelligenza: possono essere statiche o dinamiche. Le prime si fondano sull’idea che la nostra intelligenza è una qualità che rimane immutabile nel tempo, le altre, invece, la intendono come una caratteristica che si può gradualmente sviluppare. La scelta di una o dell’altra teoria ha delle implicazioni sul comportamento del soggetto, in particolare nel contesto scolastico. Chi crede di essere dotato di una quantità stabile di intelligenza che non può migliorare, sarà poco motivato ad impegnarsi in esercizi per sviluppare la propria competenza. In questa prospettiva l’impegno non influenza le doti intellettive e l’apprendimento si limita alla memorizzazione di nozioni. La convinzione che le proprie abilità siano difficilmente modificabili indurrà ad avere paura dei compiti impegnativi in cui c’è il rischio di fallire.
Questa preoccupazione porterà a ricercare facili successi, ottenuti con poca fatica, mirando alla dimostrazione della propria
competenza. Contrariamente, lo studente che è convinto della possibilità di migliorare la propria intelligenza sarà maggiormente propenso a lavorare tenacemente e a cimentarsi in attività impegnative. Secondo il modello presentato da Dweck (1986) le teorie implicite influenzano anche il tipo di attribuzione che viene utilizzata per spiegare gli eventi che ci accadono.
La teoria attributiva si è rivelata importante per comprendere cosa spinge il soggetto ad apprendere e che cosa può minarne la motivazione. Il processo di attribuzione comincia considerando un evento accaduto e valutandolo sulla base delle esperienze fatte in passato, sul contesto, sulle caratteristiche del compito affrontato e sulle emozioni sperimentate. Il risultato è una serie di cause che l’individuo spontaneamente attribuisce agli eventi per capire cosa sia accaduto, per quale motivo e per prevedere che cosa succederà in futuro. Tutto questo emerge dal bisogno dell’uomo di comprendere il mondo e le sue regole (Heider, 1958). Le persone ricercano una regolarità nelle situazioni quotidiane e quindi interpretano la realtà scegliendo uno schema abbastanza stabile di cause, il cosiddetto stile di attribuzione.
La classificazione delle possibili cause utilizzate si basa su tre dimensioni principali (Weiner, 1985):
- il locus of control: distingue fra cause attribuibili alla persona o a fattori esterni ad essa;
- la stabilità nel tempo: chiarisce se una causa è variabile o permanente nel tempo;
- il grado di controllo: indica quanto una persona si consideri responsabile delle proprie prestazioni.
In particolare, i successi o gli insuccessi scolastici vengono attribuiti a cause interne come l’abilità personale (una causa stabile e incontrollabile) o l’impegno (causa instabile e controllabile), o a fattori esterni quali le caratteristiche del compito (causa stabile e incontrollabile), la fortuna (causa instabile e incontrollabile) o l’aiuto degli altri (causa instabile e controllabile). Il tipo di attribuzione influenza la prestazione scolastica agendo sulle strategie utilizzate, le abitudini di studio e la perseveranza. Credere nell’importanza dell’impegno fa aumentare lo sforzo impiegato per utilizzare al meglio le risorse cognitive, mentre un’attribuzione al fattore dell’abilità risulta meno motivante.
Quest’ultima nel caso di successo può provocare un atteggiamento passivo nei confronti dello studio (“sono bravo e non serve impegnarmi”) e in seguito al fallimento indurre depressione e apatia. Utilizzare abitualmente attribuzioni che non sono sotto il controllo del soggetto può indurlo a percepire gli eventi che gli accadono, in particolare quelli negativi, come inevitabili, alimentando atteggiamenti fatalistici e superstiziosi (De Beni e Moè, 1996).
Un altro fattore che può essere predittore della motivazione ad apprendere è l’autoefficacia (per una rassegna Zimmerman, 2000). Essa comprende le convinzioni degli individui in merito alla propria capacità di produrre determinati effetti. Tale credenza influenza i comportamenti, le emozioni e la motivazione. Trae origine da quattro fonti principali:
- le esperienze di gestione efficace: i successi aumentano la propria autoefficacia mentre i fallimenti la indeboliscono;
- l’esperienza fornita dai modelli: le persone simili che, perseverando, raggiungono gli obiettivi prestabiliti ci stimolano ad avere fiducia nelle nostre capacità;
- la persuasione: il mezzo attraverso il quale si consolidano le proprie convinzioni;
- i segnali di attivazione emotiva: le emozioni fungono da segnale per prevedere l’esito dell’azione intrapresa.
L’efficacia personale influenza considerevolmente gli altri aspetti motivazionali. Chi si sente efficace affronterà compiti difficili come sfide, si sentirà meno scoraggiato di fronte agli ostacoli perchè li attribuirà ad una mancanza di conoscenze che può essere modificata e, per questo motivo, si impegnerà a migliorare le proprie prestazioni attraverso lo sforzo (Bandura, 1986).
Le componenti metacognitive e motivazionali appena descritte sono importanti nella scelta e nella pianificazione delle strategie di apprendimento. Infatti il modello di Borkowski e Muthukrisna (1994) definisce il buon utilizzatore di strategie come colui che ha sviluppato una competenza metacognitiva ed è sostenuto da una buona motivazione: conosce le strategie ma sa soprattutto quando e dove utilizzarle, in che contesti, controllandone l’efficacia durante tutto il percorso. Inoltre, lo studente strategico è uno studente motivato intrinsecamente, crede nell’importanza dell’impegno, è orientato ad apprendere cose nuove e non a dimostrare esclusivamente la sua competenza. L’apprendimento è un processo circolare in cui i successi dovuti all’applicazione ragionata di strategie aiutano a sviluppare e rinforzare la fiducia in sé, che, a sua volta, alimenta il comportamento strategico.
Nata a Treviso il 2/6/1950,
residente a Padova,
professore ordinario (full professor) di Psicologia Generale, Universita’ di Padova, Italy.
Principali aree di ricerca: memory, mental imagery, motivation, learning disabilities.
Conference presentations: circa 200 at National and International meetings.
Circa 150 research publications in peer-reviewed riviste Italiane e Internationali; una decina di volumi presso importanti case editrici.
Responsabile dei tutor della Facoltà di Psicologia e del Servizio di Assistenza Psicologica-Problemi di studio dell’Università di Padova.
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